Pubblichiamo la prima puntata di un reportage scritto dalla nostra delegazione in Chiapas, Messico. Si tratta di un viaggio al quale stanno partecipando due compagne e un compagno di Ya Basta! Milano e di CasaLoca, con la piccola Anita e con la presenza anche di due donne esterne. Alcuni mesi fa, dopo l’ultima importazione di Café Rebelde Zapatista, abbiamo stabilito di inviare una delegazione che rinsaldasse i legami con il movimento zapatista e con la cooperativa di caffè Yachil Xojobal Chulchans, che visitasse alcune comunità e realtà di lotta, e che partecipasse all'Incontro delle Reti che sta appena prendendo il via. Le compagne e i compagni presenti ci hanno inviato dei bellissimi report relativi alla prima parte del viaggio.
Date le sciocchezze circolate nei mesi precedenti a opera di tale Di Battista, pateticamente echeggiate dalla stampa italiana, pensiamo che la lettura di questo piccolo diario di viaggio dia un'immediata evidenza della differenza tra chi pratica internazionalismo e si relaziona con le realtà di lotta, e chi si spaccia per giornalista tacendo alle compagne e ai compagni messicani la propria appartenenza a un partito impresentabile.
Il giro è iniziato l'8 dicembre e si concluderà a gennaio. Pubblicheremo a pezzi il reportage per non appesantire la lettura.
DOMENICA 9 DICEMBRE 2018
Abbiamo partecipato all’anniversario della Casa de Salud Comunitaria Ji’bel ik (Raiz del Viento). Ci hanno accolto compagni internazionali, un colorato gruppo di bambini e gente del quartiere. La Casa de Salud è uno spazio di lotta, salute e apprendimento nel quartiere popolare di Cuxtitali di San Cristòbal de las Casas. Un luogo che, ispirandosi all’impostazione del sistema sanitario delle comunità zapatiste, affronta la salute della persona nella sua totalità, a livello fisico, mentale ed emozionale. Si parte dal concetto per cui in un mondo malato è impossibile rimanere sani. Il sistema in cui viviamo, capitalista, razzista e patriarcale influenza infatti la nostra salute in tutti i suoi aspetti e da qui nasce l’esigenza di riappropriarsi collettivamente e attivamente della salute, attingendo anche dalla medicina naturale e tradizionale. Il legame col territorio sulla questione della salute si sta rafforzando attraverso la lotta per il diritto all’acqua, un tema molto sentito in queste zone dove l’acqua, seppure abbondante, comporta dei rischi di salute ed è quindi oggetto di speculazione da parte delle istituzioni.
Per i membri della Casa de Salud, assumersi la responsabilità della salute collettiva significa riprendere in mano una conoscenza di cui il sistema si è appropriato, creando uno stato di dipendenza da governo, medici e grandi case farmaceutiche. Per questo considerano che la salute è un aspetto fondamentale della lotta per la vita: “para luchar hay que estar sanos y para estar sanas hay que luchar”.
LUNEDI 10 DICEMBRE
Oggi, in questa giornata piovosa, siamo stati al Centro de Derechos Humanos Fray Bartolomé de Las Casas (Frayba), un organismo civile non governativo fondato nel 1989 dal vescovo don Samuel Ruiz Garcìa. Il Frayba concentra la sua attenzione in tre grandi ambiti:
- la promozione e difesa delle popolazioni indigene organizzate; in Chiapas infatti quando le comunità indigene si organizzano lontano dai partiti e dai poteri governativi o per rivendicare i loro diritti comunitari sono oggetto di ostilità da parte dei poteri che alimentano conflitti utilizzando anche le bande paramilitari;
- la costruzione della pace nei conflitti interni armati non risolti, favorendo l’accesso alla giustizia; misure per la riconciliazione e strumenti affinché non si ripetano;
- l’effettivo accesso alla giustizia lottando contro la repressione e l’impunità e sviluppando strategie per la reale applicazione del diritto alla giustizia.
Una delle modalità nelle quali si dispiega il suo lavoro è favorire la presenza di osservatori internazionali nelle comunità sotto minaccia istituzionale. Questi observadores vengono formati nel Centro e vanno a vivere, per un minimo di una settimana, nelle comunità a rischio, condividendo la vita del pueblo e monitorando la situazione, con l’obiettivo di diminuire il rischio di violazione dei diritti umani e comunitari.
MARTEDI 11 DICEMBRE
Oggi siamo andati in un villaggio zapatista vicino a Comitàn e appartenente alla regione autonoma del Caracol 4 di Morelia. Con il compagno O., che G. già conosceva, è stato il ritrovarsi di due vecchi amici che non si vedono da tempo, e l’accoglienza dell’intera famiglia è stata calorosissima. In qualche minuto c’era già una tavola imbandita di mole, tortillas, fagioli e pollo.
Già sapevano che, poco prima di arrivare, ci eravamo fermati al cimitero poco distante, che aveva attratto la nostra attenzione per via dei colori e della forma delle lapidi; questa cosa ci ha stupiti e fatto capire che nei loro territori non si muove foglia senza che loro lo sappiano.
Tra un piatto e l’altro ci siamo presentati, e il compagno O. ci ha tenuto a raccontarci come la sua famiglia è entrata nell’EZLN. Negli anni ‘70 e ‘80 il padre era un contadino cosciente della sua condizione e delle ingiustizie che tutti i contadini poveri subivano a causa dei proprietari terrieri. Aveva fatto parte di varie organizzazioni sociali contadine, ma ogni volta si imbatteva in modalità gerarchiche: i leader anteponevano il proprio interesse personale a quello dei contadini organizzati. In seguito partecipò alle attività di formazione politico-religiosa della diocesi di San Cristòbal, promosse da don Samuel Ruiz, il vescovo artefice del dialogo tra l’EZLN e lo stato messicano dopo l’insurrezione zapatista. Divenne catechista-promotore sociale (tunele, in lingua indigena), ma poco a poco si rese conto che anche la visione della chiesa non era sufficiente per il riscatto dei contadini poveri; di fronte alle ingiustizie e alle violenze che i padroni e i loro servi paramilitari esercitavano contro i contadini, la via pacifica non era sufficiente: il pacifismo e la non violenza avrebbero condotto le lotte contadine a una sconfitta. Entrò così nell’EZLN con tutta la sua famiglia.
O. ci ha anche raccontato di come il padre sia diventato promotore di educazione dopo che l’EZLN aveva deciso che l’educazione dei figli degli zapatisti non poteva più essere richiesta agli insegnanti che mandava il governo, ma doveva e poteva essere organizzata in forma più orizzontale nelle comunità, chiedendo ai giovani che avevano più istruzione di insegnare ai più piccoli delle comunità. Gli insegnanti del governo spesso non si presentavano, o, quando lo facevano, erano spesso ubriachi; la lingua usata durante le lezioni era lo spagnolo, lingua dei conquistatori e degli oppressori, e non la lingua madre dei contadini. Ancor meno attenzione veniva dedicata alle bambine, che rimanevano nella maggior parte dei casi completamente analfabete. Con l’educazione autonoma i promotori di educazione (nella scuola primaria) e gli educatori (nella formazione secondaria) venivano incaricati ad insegnare dalla comunità stessa. I bambini e le bambine hanno potuto finalmente imparare la propria lingua madre, apprendendo la storia dal punto di vista degli oppressi, studiando le scienze e le tecnologie utili alla vita sociale ed economica della comunità. L’educazione autonoma ha come obiettivo quello di dare agli indigeni gli strumenti per poter vivere e lavorare senza avere un padrone e senza dover sottomettersi al sistema capitalista, bensì per essere utili alla comunità e vivere con dignità.
Mentre la discussione proseguiva intorno al tavolo, è apparso alla porta il compagno V., fratello di O., che alcuni dei nostri compagni di Ya Basta! hanno conosciuto nelle ultime visite in territorio zapatista e che, dopo un altrettanto affettuoso benvenuto, ci ha raccontato e ha condiviso alcuni avvenimenti e pensieri. Ci ha raccontato, per esempio, che qualche settimana fa si è presentato al caracol un gruppo di guatemaltechi che volevano chiedere consigli a loro su come organizzarsi e avanzare nel riconoscimento dei propri diritti. Gli zapatisti hanno apprezzato la loro determinazione nel proseguire la lotta e nell’organizzarsi, ma hanno ricordato loro che, finché le loro richieste erano state rivolte al governo, non avevano ottenuto nulla, perché quello che concede il governo a quelli in basso viene dato per indebolire il movimento e per diminuire la fiducia nell’autorganizzazione: indigeni e contadini possono governarsi da soli senza bisogno dei professionisti della politica che non conoscono i poveri e che appartengono al sistema dominante. Hanno raccontato agli indigeni guatemaltechi la strada che gli zapatisti stanno percorrendo, cioè quella della costruzione di un sistema di vita e di relazioni autonome e alternative al governo e al sistema capitalista.
Abbiamo chiesto loro cosa pensassero della marcia dei migranti salvadoregni che negli ultimi mesi hanno attraversato il Messico e quindi anche il Chiapas per rivendicare il diritto a cercare un lavoro degno dove meglio desiderano. O. ha ribattuto chiedendo a noi come la pensassimo, e per noi è stata anche un’occasione per parlare di quello che sta succedendo nei nostri territori, dall’altra parte dell’oceano. O. ha ascoltato con attenzione e, riferendosi invece a quello che sta succedendo qui, con molta lucidità ha espresso il parere che l’emigrazione è un fenomeno molto complesso, e che non sempre allontanarsi dalla propria terra e dal proprio popolo è la scelta giusta: abbandonare la terra per andare a vivere nelle città spesso significa perdere tutto e non trovare più le risorse necessarie per mangiare e sopravvivere. Hanno concordato con noi sull’importanza del fatto che finalmente migliaia di migranti si fossero uniti e organizzati per rivendicare il diritto al lavoro e che è sempre giusto rivendicare il diritto di restare o di andare dove meglio si crede per cercare una vita migliore.
Ci hanno accompagnati poi nella milpa (campo nel quale si coltivano mais e fagioli) della comunità, e il piccolo L., figlio di O., ci ha mostrato come si raccolgono le pannocchie di mais, che in quel momento erano tenere, dolci e mature, e fatto assaggiare fagioli di differenti qualità e colori, che la comunità sta sperimentando. Dopo un poco di timidezza iniziale, è stato bellissimo vedere Anita e D., figlia di O., giocare, comunicare e ridere, ridere tanto pur parlando due lingue diverse.
Abbiamo fatto il giro della comunità, visto la escuelita, la grande cisterna d’acqua piovana costruita da loro, il campo da basket e infine il grande auditorium della comunità, coi muri dipinti con le tredici domande dell’EZLN nell’insurrezione del 1994. V. ci ha detto che l’auditorium era stato costruito negli anni ‘90 con la collaborazione di un gruppo di italiani solidali.
Durante il pranzo eravamo rimasti deliziati dal miele di loro produzione, che normalmente vendono a San Cristòbal e a Comitàn; ne abbiamo comprato qualche barattolo da portare in Italia in ricordo di questa visita speciale. Come scritto sull’etichetta: “Alimenta resistencias y fortalece la esperanza con rebeldìa”. [CONTINUA...]
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