Domenica 16 dicembre 2018
Il Caracol si trova a meno di un km dalle cascate di Roberto Barrios, formate dal fiume Chancalà. Abbiamo aspettato un po’ fuori dal Caracol e, durante l’attesa, la piccola delegazione del Coro Ingrato ci ha allietati con canti di lotta. I compagni della Commissione di Vigilanza ci hanno poi fatto visitare il Caracol.
Martedì 18 dicembre
Arriviamo a Morelia circa alle 10. La commissione si vigilanza ci chiede un documento, ci presentiamo come membri dell’associazione Ya Basta! Milano e chiediamo, qualora possibile, di visitare il Caracol. Proprio qui, anni fa, G. ha fatto il maestro di matematica per i promotori di educazione della scuola secondaria indigena e autonoma.
Nell'attesa fuori dal Caracol IV, che viene chiamato "Torbellino de nuestras palabras" (Vortice delle nostre parole), c'è un via vai di compagni che ci salutano tutti molto calorosamente, dandoci la mano. Tra coloro che si presentano alla porta del Caracol ci sono anche non zapatisti. Non sappiamo quale problema presenteranno ma è frequente che la Giunta del Buon Governo dell'EZLN debba affrontare non solo le questioni dei base di appoggio che fanno riferimento a quel Caracol ma anche quelli di campesinos non zapatisti che preferiscono rivolgersi a loro piuttosto che alle istituzioni: problematiche di giustizia comunitaria, di produzione o di relazioni commerciali vengono certamente affrontate meglio da chi le conosce direttamente che non dagli organismi politici ufficiali che giudicano principalmente con la logica dell'interesse economico del più forte.
Ci dicono che la Giunta è impegnata in una riunione ma che, una volta finita, i membri della Giunta avrebbero piacere a salutarci.
Mentre aspettiamo di essere ricevuti dalla Giunta giriamo il Caracol e immortaliamo i bellissimi murales, stando attenti però a non fotografare i compagni presenti nel Caracol. Sono tutti gentili e disponibili a parlare con noi; due compagni ci fanno sapere con grande gioia e orgoglio che a febbraio ci sarà un incontro in una comunità dove si riuniranno circa 180 alunne zapatiste per apprendere e giocare a calcio : per una settimana istruttori dall'Italia, promotrici e alunne indigene insieme sulla "cancha" di football, sarà un taller de puras mujeres.
L'incontro con la Giunta "Corazón del arco iris de la esperanza” è breve. Giusto il tempo per presentarci e ringraziarli dell'inaspettato invito a incontrarci. Usciamo dal Caracol e nella vivace piazza di Altamirano, risalendo in macchina, si avvicina un indigeno con una vistosa maglia dell'Inter. È A., della commissione educazione del Caracol 4, che riconosce G. Dopo gli abbracci, anche lui con grande soddisfazione ci parla del prossimo arrivo degli allenatori italiani di Intercampus per le lezioni di calcio con sole alunne zapatiste. Si percepisce che tutti gli zapatisti che stanno preparando l'evento sono ben coscienti della eccezionalità di dar spazio al genere femminile: gli zapatisti stanno portando avanti il tema della parità di genere nelle proprie comunità autonome e questo può essere uno stimolo anche per le vicine comunità indigene non zapatiste.
Mercoledì 19
Oggi siamo stati al carcere di San Cristobal de Las Casas “CeReSo 5 ”. E. dice: non avrebbe mai pensato di entrare in un carcere messicano, invece sono qui e alle volte la realtà supera di gran lunga i film. Fin dai primi controlli è stato come essere catapultati in una dimensione a sé, con meccanismi e regole tutte sue, alle volte incomprensibili. Eravamo stati avvisati di non indossare jeans o pantaloni neri perché non ci avrebbero fatti entrare (sembrerebbe che ricordano i pantaloni delle guardie e che quindi creerebbero confusione). Abbiamo portato quindi dei ridicoli pantaloni colorati nello zaino, rossi e a zampa di elefante per E. e un pigiama a righe per A. Una volta lì, però, ci rendiamo conto che i divieti sono molti di più: non si possono introdurre vari tipi di frutta (potrebbero fermentare ed essere trasformati in alcoolici) indossare gonne, tacchi, indumenti di colore verde, scarponi, parrucche, oggetti di tecnologia e tanto altro.
Chiediamo di poter vedere il compagno Adrian; la direttrice del carcere era stata avvisata di questa visita quindi ci fanno entrare senza problemi. Nel cortile una scena particolare: sembrava che guardie e alcune donne detenute stessero preparando una recita di Natale ballando e cantando. I vari step prevedono una card numerata per ognuno, un primo timbro, i controlli in stanzini divisi per uomini e donne. Ai controlli effettivamente ci fanno mettere i pantaloni che avevamo portato e chiudono invece un occhio sulle scarpe nere. Cancelli che si aprono, cancelli che si chiudono, nuovi timbri sul braccio e siamo dentro.
Siamo nell’area maschile; pensavamo di incontrare solo Adrian ed invece ad attenderci ci sono anche Juan e Alfredo. Sono felici di vederci. Attraversiamo un cortile di cemento con uomini impegnati nelle attività più disparate: chi sta in gruppo seduto su panchine, chi prepara un caffè, chi è davanti a un fuocherello improvvisato. A un certo punto qualcosa di insolito: dei grossi telai con fili coloratissimi che uomini maneggiano con maestria. È quasi surreale; sembra un piccolo villaggio in movimento con persone intente nelle proprie attività; quasi dimentichi di essere in carcere, sembra un ambiente vivo e “non male” . La sensazione di questo impatto dura il tempo di qualche passo, si trasforma pian piano in un escalation di presa di coscienza e quando ricomponi i pezzi ed esci da lì, il senso di oppressione e impotenza è tanto che quasi ti vergogni di averlo pensato .
I compagni ci portano nel loro piccolo spazio esterno, “nuestro lugar” dicono: sono dei bei tavoli di legno sul quale sono state colorate caselle per giocare a scacchi, una stella rossa e la scritta EZLN ben in vista. Ci offrono tè e biscotti, ci accorgiamo però che loro né mangiano né bevono. Infatti sono in sciopero della fame per rivendicare la mancanza di diritti dei carcerati. Ci presentiamo, ci ascoltano con attenzione e a seguire, uno per volta, ci raccontano le loro storie. Sono storie dettagliate, si soffermano tutti sulle date e sugli orari precisi degli avvenimenti che hanno portato alla loro carcerazione. Sono passati tanti anni ma è come se per loro si fosse fermato il tempo. Non è compito nostro indagare sulla verità delle storie in sé, sull’innocenza o meno. Quel che è certo è che sono racconti che riportano modalità e ingiustizie che qui sono all’ordine del giorno, soprattutto sulla pelle degli indigeni, facili e comodi capri espiatori a cui addossare delitti e omicidi. Trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato spesso è determinante; due di loro ad esempio si trovavano casualmente (uno per lavoro, l’altro per cercare un curandero) in luoghi dove era scomparso qualcuno qualche tempo prima. È così che, all’improvviso, si sono ritrovati caricati a forza e bendati su una macchina e portati in una Casa Particular, “casette delle torture” messe in atto anche da agenti di polizia, spesso assistiti da "fiscales" (giudici di ultima categoria).
In tutte e tre le storie i dettagli sulle torture sono agghiaccianti e le modalità assodate e reiterate; calci, schiaffi, pugni, occhi bendati, soffocamento con borse di plastica, peperoncino nel naso, cavi elettrici nelle parti intime, armi puntate alla tempia, svenimenti continui con risvegli con acqua fredda, no cibo, no acqua. Tutto questo porta a stati di impotenza assoluta e molto spesso ci si ritrova a firmare con false promesse o senza sapere nulla dei reati che vengono attribuiti. Le ingiustizie continuano in quei luoghi e con quelle persone che dovrebbero rappresentare la legge. È noto che la corruzione rappresenta un grave problema in Messico e tra giudici, avvocati corrotti, false testimonianze e addirittura minacce alla stessa controparte se non dichiara la colpevolezza dell’imputato, la speranza di uscire è spesso nulla. Per esempio, uno dei nostri interlocutori è stato messo in carcere dal 2004 ed è ancora in attesa di una sentenza (14 anni di carcere senza alcuna sentenza!!).
Il detenuto, una volta sentenziato e condannato a una determinata pena, dopo aver scontato il 60% della pena inflitta, può chiedere una riduzione della stessa a condizione che gli sia riconosciuta la buona condotta e la sua partecipazione alle attività carcerarie; ma se, come spesso accade, la pene sono cumulative (omicidio insieme a estorsione, ad esempio) bisogna prima espiare completamente la prima. Non è difficile comprendere che la disillusione e la sfiducia nei confronti della giustizia è totale. Questo ha portato i detenuti, in alcuni casi, ad organizzarsi contro il sistema giudiziario. Adrian, Juan e Alfredo, per esempio, hanno costituito “La Voz Indigena en Resistencia, adherente a la Sexta Declaraciòn de la Selva Lacandona”, con il proposito di “difendere i nostri diritti e ricordando lo stato di estrema emarginazione in cui si trovano i detenuti”. Alcuni detenuti si avvicinano all’organizzazione “La Voz Indigena en Resistencia” del Cereso 5 anche solo per essere sostenuti nelle problematiche di ordine quotidiano; chi invece vuole farne parte deve assumersi la responsabilità di questa scelta nei confronti proprio e degli altri compagni. Alcune piccole conquiste nel tempo sono state ottenute, come ad esempio il cambio del corrotto difensore d’ufficio.
L’organizzazione dei detenuti nel Cereso 5 come di altri detenuti in altre carceri chiapaneche, è sostenuta dal Grupo de Trabajo No Estamos Todos, che li visita settimanalmente e promuove le visite di compagni internazionali, che rappresentano per loro anche un modo di essere in qualche modo protetti dagli abusi delle guardie carcerarie e dalla direzione, che non vede di buon occhio la loro autorganizzazione. Ci hanno raccontato di come è scandita la loro giornata: le celle rimangono aperte tutto il giorno, solo la notte devono rientrarvi e vengono chiuse, tre volte al giorno avviene la “conta” dei detenuti, le attività che si possono fare sono diverse ma soprattutto vengono realizzati prodotti di artigianato come amache o, nel laboratorio di carpenteria, bellissimi mobili e oggetti in legno. I prodotti finiti vengono venduti all’esterno e rappresentano il sostentamento di gran parte dei detenuti. Qualcuno lavora invece all’interno dei servizi carcerari, come ad esempio in cucina, e riceve una paga di 20 pesos al giorno. Spesso la qualità del cibo distribuito è scadente ed i detenuti hanno il permesso, con piccoli fornelli elettrici, di poter cucinare rifornendosi nei piccoli negozietti all’interno. I giorni di visita sono il martedì, il giovedì e la domenica. Esiste anche la possibilità di incontri coniugali in una apposita stanza adibita a questo scopo e ci si può fermare lì dal Sabato fino al Lunedì mattina presto.
Ci dicono che ci sono pochi “mestizos” o “güeros” (bianchi) e quei pochi godono di maggiori privilegi; alle loro mogli ad esempio è permesso entrare indossando la gonna o portando frutta, concessioni negate alle famiglie indigene. Ci raccontano di dinamiche interne di potere ma non vogliono soffermarsi su questo aspetto. Passano cosi più di quattro ore, quelle storie rimbombano nelle nostre menti, capiamo però che per loro è importante condividerle e farle sapere, è una delle poche cose che possono fare.
Fino a quel momento siamo stati negli spazi esterni delimitati da grandi mura intorno a noi, ci hanno poi però accompagnati negli spazi comuni interni e nelle celle, tra gli sguardi curiosi degli altri detenuti. Il carcere è diviso in “navate” costituite da un grande campo da basket centrale (ai cui bordi in molti stavano tessendo sui grandi telai le amache), a dividere il campo dalle celle una enorme inferriata e dei minuscoli corridoi con fornelli e sedie improvvisate. Descrivere la cella non è facile; in uno spazio minuscolo sono stati ricavati 11 spazi per dormire; quando necessario qualcuno dorme per terra in un’intercapedine piccolissima tra il pavimento e la base del letto sopra, il bagno è giusto lo spazio del wc, e in un’altra intercapedine vengono accatastati piatti, bicchieri e posate; per ricavarsi spazi personali ridotti all’osso vengono messi dei pannelli di legno che delimitano il proprio spazio letto.
E’ giunta l’ora di andare per noi: ci accompagnano fino al cancello, che per loro rappresenta la divisione tra “dentro” e “fuori”, ci abbracciamo, parliamo delle modalità per restare in contatto attraverso la rete di appoggio tenuta dal Gruppo No Estamos Todos e ci attardiamo un po’ con i saluti. Non è facile. La guardia apre il cancello. Noi frastornati lo superiamo; ancora tutti gli step al contrario per uscire, porte che si aprono e che si chiudono dietro di noi, revisione accurata negli stanzini. E siamo fuori.
Venerdì 21 dicembre
Oggi c'è stato l'incontro con la Cooperativa Yachil ,che raccoglie il caffè dai produttori zapatisti de Los Altos e che si occupa della sua vendita senza passare per gli intermediari che ricattano i contadini e tengono i prezzi bassi per tirare il collo ai lavoratori del campo.
Tra i compratori ci sono soprattutto gruppi o collettivi che sostengono dall'Europa ma anche da altre parti del mondo la lotta zapatista, e che attraverso la vendita del caffè, oltre ad appoggiare l’autonomia zapatista, cercano di diffondere la conoscenza su questo pezzo di mondo che sta portando avanti da 25 anni un’alternativa al capitalismo, combattendolo e mostrandone la disumanità. Tra di loro ci siamo anche noi che dal 2003, tra alti e bassi, portiamo avanti il progetto Caffè Rebelde Zapatista con questo obiettivo.
La sede della Cooperativa Yachil si trova nella Colonia Nueva Maravilla, uno dei quartieri più poveri di San Cristòbal e dove sorge anche l’Università della Terra – CIDECI. Ci accolgono A., il presidente della Cooperativa Yachil, il Tesoriere F., P. che si occupa delle ordinazioni e G. della parte commerciale. Ci sediamo intorno a un tavolo nel cortile dove ci presentiamo reciprocamente: è sempre importante per loro precisare la comunità o il pueblo di provenienza. Dentro invece si sta svolgendo una riunione di 9 giovani basi di appoggio, probabilmente impegnate in un taller di apprendimento.
Ribadiamo la nostra felicità nel vederci di persona, li aggiorniamo sul progetto Café Rebelde Zapatista e ci confrontiamo anche su questioni tecniche e logistiche. Parliamo della certificazione. Negli anni, gli zapatisti de Los Altos del Chiapas hanno spedito in Europa un caffè certificato organico dalla Agenzia privata chiamata Certimex. L’Agenzia manda dei suoi funzionari nelle piantagioni di caffè zapatista per fare dei controlli che assicurino che i processi di produzione siano rigorosamente rispettosi della agricoltura organica. Tutto ciò in realtà sarebbe superfluo perché in Europa la certificazione serve per garantire che la coltivazione rifiuti le logiche dell’agricoltura industriale che rappresenta la norma in una economia capitalista, mentre nelle comunità indigene zapatiste, fin da piccoli, nelle scuole autonome si insegna e nei campi si pratica l’agroecologia, e non l’agronomia come da noi. L’agroecologia, come la intendono gli zapatisti, è un’agricoltura che rispetta la terra e l’ambiente, che si preoccupa di non sfruttare la terra ma piuttosto di curarla. La cosa risulta evidente viaggiando in Chiapas lontano dalle strade principali: quando si vede un campo ad agricoltura intensiva con le piante fitte fitte è certamente un campo coltivato con gli aiuti del governo e da agricoltori filogovernativi, mentre se si incontra un campo con le piante ben distanziate le une dalle altre, quello è certamente zapatista o aderente alla Sexta, ovvero filozapatista.
Un altro elemento per convincersi di questo è come nelle comunità indigene zapatiste si fa la semina: il giorno viene accuratamente scelto tra quelli che precedono il periodo delle piogge. Il giorno prima della semina si fanno delle cerimonie e riti che oltre a rinsaldare i vincoli culturali della comunità hanno il significato di “chiedere scusa alla terra” per “ferirla” allo scopo di inserire nella “ferita” il seme. La terra è madre, una madre che nutre i suoi figli e che quindi deve essere curata e rispettata affinché possa continuare a nutrire i suoi figli. La certificazione ufficiale è spesso chiesta dai compratori/sostenitori europei, a cui a loro volta i consumatori/solidali la richiedono... ma a fronte di quanto detto non sarebbe davvero necessaria.
Ci facciamo spiegare come avviene la trasformazione del “pergamino”, così si chiama la ciliegia di caffè “spolpata” in oro verde calidad europea: si fa seccare il pergamino , si ripulisce di tutte le tracce di polpa ancora attaccate al seme e i chicchi più piccoli vengono eliminati.
Chiediamo anche informazioni sulle famiglie zapatiste e non che si occupavano della coltivazione del caffè e che sono dovute fuggire dai loro villaggi perché minacciate dai paramilitari che, come già detto nei report precedenti, sono tollerati e a volte appoggiati dal governo messicano e dall’esercito per combattere e contrastare qualsiasi tipo di autonomia dal sistema capitalista e governativo. Ci dicono che molte famiglie sono finalmente ritornate alle loro case ma che tuttora alcune, di Aldama e di Santa Martha, sono ancora sfollate; la situazione è rientrata ma c'è sempre uno stato l’allerta. A Santa Martha, Emiliano Santiz Hernandez, lavoratore indigeno, è stato ferito da una pallottola al braccio e sia lui che la sua famiglia hanno tutto l'appoggio e la solidarietà degli zapatisti.
Sulla roya, che è un fungo che ha colpito le piante del Chiapas, ci dicono che da tre anni lo si sta combattendo ma che è ancora presente, soprattutto quando piove. La riunione si avvia alla chiusura e il compagno G., scherzando chiede se la piccola Anita può restare in Chiapas con loro.
Ci salutano con “amor zapatista” . [CONTINUA...]
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